Nel settembre del 1994 ho licenziato gli ultimi cinquantotto operai. Sono passati ventinove anni, ventisei dei quali trascorsi lontani dalla Calabria, costretto insieme alla mia famiglia ad una vita da esiliato. La scelta di oppormi alla vessazione della ‘Ndrangheta ha significato perdere il lavoro, in un momento in cui nel pieno della giovinezza, sapevo di avere strumenti e capacità per far espandere la mia impresa ancora più di quanto fossi già riuscito. La ‘ndrangheta ha avvelenato i miei sogni e ha spezzato la mia vita. Avrei dovuto avere sempre lo Stato al mio fianco, con costanza, con azioni incisive, garante di quei diritti per la difesa dei quali avevo stravolto tutto. Ho sempre lottato per riprendere la mia vita là dove si era interrotta. Dovevo aspettare un po’ di tempo, forse qualche anno… ne sono passati circa trenta e la mia vita continua a rimanere interrotta: non ho più lavorato, non ho più visto realizzarsi i miei sogni. Le risposte da parte dello Stato continuano a non arrivare e l’indignazione aumenta. Non è accettabile il protrarsi del silenzio delle istituzioni. La lotta alla ‘ndrangheta passa anche attraverso il sostegno tangibile a chi denuncia, la garanzia della sicurezza, attraverso forme di tutela certe, incondizionate. La credibilità dello Stato è fatta di azioni concrete, di risposte tempestive. Io le mie azioni e le mie risposte le ho compiute e le ho date a scapito della mia stessa vita. Quanto ancora dovrò aspettare?
Di caposud
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caposud